• Aurelie Urbano •
Senti la violenza che ti urla addosso. Come nei manga, crea un onda intorno a te alla quale resisti, stringendo occhi, denti e muscoli. La pelle è unta di sostanza elettrica e le orecchie fischiano. La siderazione ti porta via, esci da te e la mente diventa la tua supereroina. Un’iniezione di adrenalina e cortisolo che fa scattare ogni connessione tra corpo e sensazione. Clack. Tornano le luci, la gola è stretta, il collo è rigido ma bisogna ripartire. Un nuovo strato di rancore ti accompagna, l’amarezza che ti mantiene vivə e ti ammazza a poco a poco. Questo è l’obiettivo e lo scopo di ogni atto violento. Annientare. Costringere. Sottomettere. Far tacere. Silenziare. Eliminare.
Il progetto Did U See? art festival “La voce delle donne” nasce dalla forza di vità di alcune anime e dell’ incoscienza da chi voleva contribuire. Ci siamo buttatə su un terreno che si vuole campo di gioco, visto che l’arte è anche un gioco per grandi. Invece presto si è scoperto che per certi è anche un campo di battaglia. Ed ha fornito il teatro e l’opportunità di riprodurre meccanismi di potere, fuori dall’utopia democratica e paritaria. Fight, freeze, flight, fawn. Sono le quattro alternative che sceglie il cervello arcaico per tentare di sopravvivere. Combattere, immobilizzarsi, scappare. L’ultima alternativa proposta dal cervello sociale è lusingare. È considerare più safe la sottomissione e l’obbedienza, fingere di essere d’accordo e far passare avanti i bisogni della persona autoritaria prima dei tuoi. E noi non abbiamo scelto per niente questa strada.
Laddove i sistemi oppressori cercano di dividere e isolare gli individui, la rivoluzione transfemminista sostiene i meccanismi dell’unità. Unirsi significa vedersi, avvicinarsi, parlarsi, toccarsi, capirsi e fare rete. Ma soprattutto unire le intelligenze. La violenza patriarcale introiettata ti taglia le gambe. Ne abbiamo fatto l’autopsia attraverso l’autocoscienza, la condivisione, la fiducia nelle sorelle: è stato il contro veleno.
Lalula è una cometa. Brucia nello spazio, non conosci la sua traiettoria ma ti illumina e ti regala un po’ della sua polvere magica, ti trascina nel suo percorso e ti dice, “vieni insieme a me, viaggiamo un po’. Raccontami il tuo universo. Fantastico! Vai, ecco lo spazio, è tutto tuo”. Niente resiste all’energia dell’infinito, alla caduta delle barriere. Abbiamo resistito creando i nostri sogni, legati ai sensi, la mente, l’intelligenza. Abbiamo trovato uno spazio nostro e aperto le porte. Il festival è stato un viaggio durato tanti mesi, un’epopea che ci ha fatto incontrare i nostri mostri, confrontarci con le nostre paure, abbiamo girato intorno ai limiti e trovato la forza di unirci alla nostra favola. Non ci conoscevamo, ci siamo incontrate, avvicinate e legate. Ogni artista ci ha raccontato tanto. Le opere si sono guardate e hanno conversato e discusso per tre settimane. Hanno impattato fortemente chi le ha guardate e hanno segnato un istante. Si sono infilate nell’anima e negli occhi di chi è entrato a Pubblica Lab. E’ stata una maratona che abbiamo corso insieme, seguendo Lalula, sotto lo sguardo e il sostegno di Diana e l’energia potente che ti da il contribuire a un cambiamento necessario.
Ma torniamo sulla Terra. Le voci delle donne si sono intrecciate durante i talk, le presentazioni. Pure le voci silenziate e/o silenziose in tanti di noi si sono esposte, spesso per la prima volta, scomode e vulnerabili, durante i cerchi di parola. Le voci delle donne sono così sovversive da essere vietate. Il suono stesso rimane insopportabile ai fondamentalisti. Ai vigliacchi. Così sovversive e pericolose, quando non rispecchiano le aspettative del sistema patriarcale, da renderle mute. Il veicolo della voce rimane il corpo. Anche esso va violentato, traumatizzato, sottomesso. Le artiste attraverso le opere ce l’hanno gridato in faccia.
“Manifesti di una donna nel mondo”, i collage di Lalula Vivenzi, ci permettono di ricostruire corpi e anime maltrattate, divise e forzate di farsi a pezzi per poi articolarsi a parole sparse e messe insieme, sempre potenti. Questi collage rispondono alle “Donne spezzate” di Selene Pierini, quadri di pezzi di corpo, un corpo frammentato e nudo, esposto, pelle e ossa, gambe e seno, senza testa. Non finisce lì. “Fai schifo” lancia sull’altra parete un trittico di corpi rannicchiati sopra il peso degli insulti ricevuti e/o autoinflitti. Mentre subito accanto, il video di Cristina Savage “Control X” ci racconta la violenza documentata della quotidianità articolata delle violenze domestiche, dallo stirare alle aggressioni all’interno della coppia, continuum che ci porta fino alla morte : al femminicidio. L’artista cuce lentamente con un filo rosso su una tuta color pelle e ci ricorda ogni volta che l’ago entra, lentamente, nelle ferite che la società ci infligge, in modo organizzato, giorno dopo giorno.
Bastava poi girare la testa sulla sinistra per incrociare il proprio riflesso, nello specchio ovale e irregolare, come una fessura nella mente, un passaggio verso l’inconscio che ci manda un messaggio “Nether beneath her” di Aliteia. Un interpello sottile che pone la domanda : chi parla? Qualcuno che teme la dominazione e la sottomissione, linguaggio binario della misoginia. Mai sotto di chi? Della figura imposta alle donne di stare sempre un passo indietro. Mai sotto la mia dignità? Mi riapproprio del discorso. Mi riapproprio di altri pezzi di me, della mia umanità, ricostruisco il mio sistema con “La cura degli Organi interni” di Daniela Daz Moretti, osservando impronte e sculture del corpo che mi restituiscono un’anima e uno spirito. Installati su di un foglio steso in terra, mi riportano alla mia organicità, alla terra, all’universo che mi crea e mi riprende. Tutto è solvibile, materia che appare e si scioglie, così come gli abusi o il rispetto, scritte di ghiaccio fotografate da Paola Calcatelli che rappresentano la supremazia del tempo che si riprende tutto, pure il peggio, per lasciare una macchia informe ma permanente. Per non rimanere immobilizzata ma pazientemente in contemplazione dell’impermanenza della natura che fluisce e ci prende per mano. Ci dice, “vai, me ne occupo io”. Alle spalle, finestre cromatiche di Casiraw : “Cromofobia” attira lo sguardo verso un focus di luce, verso il dettaglio come mezzo per guardarsi negli occhi, trasformando le pelli in velluto delicato e colorato, tra dolcezza ed elettricità. Lo sguardo della coppia siamese e doppiamente unica, crea una complicità sana dei modelli osservati e dei nostri occhi coinvolti e pacificamente complici e degni della capsula d’intimità, dell’ attimo di pace. Un attimo di pace che si è unisce ad un attimo sospeso. Perché “Non è imperativo quello che il corpo urla come fatale” e il silenzio unito all’abito bianco da sposa di Francesca Perniola, ci propulsa dall’intimo organico uterino della natura alle mani, con l’autodeterminazione. Come un fantasma nuziale, terra, fiori violentati, entrano in dialogo con il pizzo sporco di humus e umidità. E ora? Ora, ci serve la voce rauca e calma di Laura Rosina per farci viaggiare nei racconti selezionati dalla sua mente vagabonda. Poi ci serve il ritmo narrativo del corpo e dei canti di Montserrat Olavarria che ci esorcizza lacrime di antenati sradicati, spariti, fantasmi nostri. Ci serve un viaggio celeste e matematico con Paola Corsi, fata lettrice delle costellazioni dell’anima. Ci vuole un trigger warning per farci raccontare le donne nell’arte dalla voce sottile e potente di Selene Pierini. Ci vuole la presenza di Andreina Moretti e l’eleganza dei suoi racconti, l’implacabile sguardo dolce e determinato a unire le forze. Mi serve la voce piena, chiara e rassicurante dell’ autodeterminazione di Laura Gasparri, portatrice articolata di riflessioni, introspezione ed esplosione collettiva con un riso esplosivo come un fuoco d’artificio che Katia Scarpellini ci aiuta a portare su carta, facendosi artefice dei collage del nostro intimo. Fuochi di personalità messe in movimento attraverso l’energia e la gioia contagiosa di Mariasole Fornarelli, attrice e capo d’opera di una coreografia di volti offerti dalle maschere di Lalula Vivenzi. Siamo corpo, volto, attitudini, movimento intemporale. Movimento di parole e di sensi, illustrati da Benedetta La Penna, che con chiarezza e energia ci fa ritornare al significato, l’impatto e il fondamento : l’ascolto.
Ascoltiamo discorsi biopolitici con Erika Angelini e ci ricordiamo di quanto sia imperativo e primordiale che i nostri corpi siano presenti nella polis. Presenti, rappresentati e considerati. Se l’intimo è politico, è prevalentemente biopolitico. Le decisioni di chi ha tra le mani il potere istituzionale è la radice dei nostri futuri. E se questo potere non è coniugato al plurale, andiamo verso il discorso unico, il rischio di sclerosi, l’immobilismo e la dittatura. Urliamolo. Urliamolo ancora. Le nostre voci sono una rivoluzione romantica sovversiva e deviante. Una lotta fluida dalla preistoria come lo spiega Alisia Viola, sguardi repressi da un potere totalitario patriarcale che ingabbia la creatività e le possibilità di tuttə. Ma le tracce ci sono. La sopravvivenza ci definisce e riapriamo i canali sonori. Voci e parole, musiche e corpi di CosTaLuna, leggera impronta determinata, recita la canzone, canta la poesia. Laragosta conclude, fragile durezza, provocatoria poetessa, strappa la notte sulla mia pelle, entra nel nostro sistema per richiamare le ferite che hanno diritto a non nascondersi più. Attraverso le note, sfiora ed espone con diffidenza il trauma. Se lo riprende, è suo, è mio, è nostro.
Dire, urlare, scrivere, fotografare, interpretare, leggere, dipingere, disegnare, incollare, manifestare, ballare, sottovoce, a polmoni pieni, à demi-mot. Parlare un’altra lingua, altre linguaggi, inventare, storcere, manipolare, rimettere in discussione. Tutti e tutto, sempre. Questi forse sono i punti comuni dell’arte e della politica. L’arte è politica e la politica è un’arte. Viviamo in un mondo che vieta alle donne di parlare, su un continuum di bassa e alta intensità ma ovunque rimane. La parola che è la marca dell’umanità, ci viene negata là dove il potere misogino si esercita. Ovunque. L’arma che ci minaccia è: “Parli troppo”. Parlerò troppo finché non ascolterai abbastanza. Parlare troppo è il sintomo di una schizofrenia di chi è ascoltato e chi no. Parli troppo. Ho parlato troppo? Ho ancora parlato troppo… Di che parli? Perché parli? Si, parla, parla…. Parlo, spiego, mi perdo, sbaglio, ricomincio, non pour-parler ma per dire. Dire la mia, ascoltare la tua, verbalizzare, mettere delle parole su delle sensazioni, dei sistemi, per liberarmi, per essere umana. E per questo mi vorresti muta. Mi vorresti morta. Ma sono viva dentro ai cerchi che mi prendono e mi proteggono, mi metto al centro, poi mi sposto di lato per portare in mezzo chi ha bisogno di protezione per potersi riprendere, riposare, e poi ripartire sui lati e attivare il flusso della nostra costellazione. Una costellazione fatta di parole giuste, sbagliate, urlate, scritte, cantate, sussurrate, ma mai taciute. Articolate o non, colorate o simboliche. Perché l’ unica resistenza è e rimane il passaparola.
Zittə? Mai.
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